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Pasqua 2025, l’omelia della messa in Cattedrale di Gambelli: “Belli i fuochi dello Scoppio del Carro. Basta ai botti delle guerre”

Pasqua 2025, l’omelia della messa in Cattedrale di Gambelli: “Belli i fuochi dello Scoppio del Carro. Basta ai botti delle guerre”

Pubblichiamo integralmente l’omelia della messa di Pasqua pronunciata oggi, 20 aprile 2025, dall’arcivescovo di Firenze, monsignor Gherardo Gambelli, in Cattedrale, dopo lo Scoppio del Carro.

Come sarebbe bello se nel mondo i fuochi, le luci e i botti somigliassero tutti a quelli che abbiamo visto e udito oggi al canto del Gloria al momento dello scoppio del carro. Purtroppo, proprio mentre ci prepariamo a ricordare gli ottanta anni dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, i rumori delle armi, delle bombe, dei missili continuano a risuonare prepotentemente intorno a noi, al punto tale che oggi un progetto con grandi obiettivi per lo sviluppo di tutta l’umanità suona come un delirio (cfr. Fratelli tutti, 16), la pace sembra un’utopia e quanti si impegnano per la sua realizzazione vengono giudicati come degli ingenui. 

I sentimenti di smarrimento, di sconforto e disorientamento che viviamo somigliano molto a quelli provati dai discepoli di Gesù, in particolare da Maria Maddalena quando si reca al sepolcro il primo giorno della settimana e vede che la pietra è stata ribaltata. 

È interessante osservare il suo modo di esprimersi quando riferisce la notizia agli apostoli: “Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!”. Il suo parlare al plurale manifesta un disorientamento che accomuna tutta la comunità. “Non sappiamo dove l’hanno posto” ci fa pensare a quella famosa frase del Qoèlet: “Tutto è vanità e un inseguire il vento” (Qo 1,14), la vita non ha senso, è inutile impegnarsi, il mondo non potrà mai cambiare. Maria Maddalena aveva certamente udito Gesù parlare della sua morte e della sua risurrezione al terzo giorno, eppure in questo momento è come se questa parola fosse stata rubata dal suo cuore. 

C’è un cammino, tuttavia, che ella non cessa di percorrere e che la conduce ancora prima degli Apostoli a una fede matura che si manifesta poi nella gioia di trasmetterla agli altri, quando dirà: “Ho visto il Signore”. 

Maria Maddalena è una persona attenta alle relazioni, parla con gli altri, si lascia trasformare dagli incontri: prima con Pietro e il discepolo amato, poi restando al sepolcro, con gli angeli, con quello che crede essere il custode del giardino, infine con Gesù stesso. Abbiamo bisogno di un’intelligenza relazionale, oltre a quella artificiale ben sapendo che come affermava Papa Benedetto XVI “la società sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli” (Caritas in Veritate, 19). Solo vincendo la tentazione dell’isolamento, della chiusura in noi stessi possiamo superare le paure e gli inganni ed essere capaci di intuizioni, parole e gesti di speranza.

La parte centrale del Vangelo di oggi ci presenta la corsa dei due discepoli al sepolcro. 

Il fatto che non arrivino insieme non è da intendere nel senso di una competizione fra i due, ma indica piuttosto la diversità dei cammini che conducono alla fede. Pietro e il discepolo amato entrano insieme nel sepolcro, entrambi vedono, ma solo di uno di loro si dice che giunse a credere (“Vide e credette”). I teli posati là, il sudario avvolto in un luogo a parte conducono a escludere l’ipotesi di un trafugamento del cadavere. Solo uno dei due, per il momento, si apre alla fede proprio perché accoglie l’amore di Dio nella sua vita. Chi si lascia amare da Lui, diventa capace di vedere più in profondità e di riconoscere intorno a sé quei segni che Egli ci offre per imparare a fidarci di Lui, della verità della sua Parola. 

Il commento finale dell’evangelista (“Infatti non avevano ancora compreso la Scrittura, che
cioè egli doveva risorgere dai morti”) ci fa capire che la fede di questo discepolo rimane
ancora a uno stadio iniziale. È una fede che si accontenta di bende e di sudari, ferma alle
reliquie, che non scalda il cuore, e non mette in movimento per annunciare a tutti la buona
notizia della salvezza. Soltanto nell’incontro con Maria Maddalena e con il dono dello
Spirito Santo gli apostoli giungeranno a una fede più matura che li farà uscire dalle paure e
dai loro cenacoli chiusi.
È significativo il fatto che il Signore risorto abbia voluto manifestarsi dapprima a coloro che
non facevano parte del gruppo ristretto degli Apostoli per far comprendere a tutti che la fede
in Lui va sempre di pari passo con la capacità di vivere relazioni autentiche, combattendo
l’individualismo che “corrode la speranza, generando una tristezza che si annida nel cuore,
rendendo acidi e insoddisfatti” (Spes non confundit, 9).
Impariamo allora a saper dire grazie a tante persone che spesso nel nascondimento si
impegnano al servizio del bene comune. Penso in particolare a quanti si spendono per
educare tanti giovani che hanno perso fiducia nel futuro, sono disorientati, abbandonano la
scuola e il lavoro, rischiano di cadere negli inganni delle dipendenze o di sviluppare
atteggiamenti violenti. Penso a coloro che non si stancano di difendere i diritti dei lavoratori
a un impiego stabile e sicuro, soprattutto in questo tempo segnato da numerose crisi
aziendali, anche nel nostro territorio. Penso a quanti cercano di rispondere al problema
dell’emergenza abitativa, mettendo a disposizione case per accogliere famiglie, chi non ha
grandi possibilità economiche, chi cerca rifugio fuggendo da situazioni di guerra o di fame,
o chi esce dal carcere e tenta faticosamente di reinserirsi nella società.
Lo scoppio del carro ci ricorda che la Risurrezione non riguarda solo Gesù, che tutti noi
siamo chiamati a condividere la sua vita immortale.

La speranza che viene dalla fede ci
sostiene nel cammino infondendoci quel coraggio di cui c’è bisogno oggi per non
rassegnarci e non restare indifferenti davanti alle troppe ingiustizie del nostro mondo.
In un monastero medievale vivevano due monaci legati tra loro da profonda amicizia. Uno
si chiamava Rufo e l’altro Rufino.

In tutte le ore libere non facevano che cercare di immaginare e descrivere come sarebbe stata la vita eterna nella Gerusalemme celeste. Rufo che era un capomastro se l’immaginava come una città con porte d’oro, tempestata di pietre preziose; Rufino che era organista la immaginava tutta risonante di celesti melodie. Alla fine, fecero un patto: quello di loro che sarebbe morto per primo sarebbe tornato la notte
successiva, per assicurare l’amico che le cose stavano proprio come le avevano immaginate.
Sarebbe bastata una parola: se era come avevano pensato avrebbe detto: taliter (tale e
quale); se era diversa avrebbe detto: aliter (diversa).

Una sera, mentre era all’organo il cuore di Rufino si fermò. Rufo attese per mesi e finalmente, nell’anniversario della morte, ecco che in un alone di luce entra nella sua cella Rufino. Vedendo che tace, è lui a chiedergli, sicuro della risposta affermativa: taliter? “È così, vero?” Ma l’amico scuote il capo in segno
negativo. Disperato, grida allora: aliter? “È diverso?” Di nuovo un segno negativo del capo.
E finalmente dalle labbra chiuse dell’amico escono, come in un soffio, due parole: Totaliter
aliter: è tutt’un’altra cosa! Rufo capisce in un lampo che il cielo è infinitamente di più di
quello che avevano immaginato, che non si può descrivere, e di lì a poco muore anche lui,
per il desiderio di raggiungerlo.

Il fatto è una leggenda, ma il suo contenuto è quanto mai vero. Un giorno, quando varcheremo le soglie della vita eterna, verranno spontanee alle labbra anche a noi quelle due parole: Totaliter aliter! È tutt’un’altra cosa! Lo auguro di cuore a me e a tutti voi.

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