Il 22 settembre è stata la giornata mondiale senza auto, usiamo questo pretesto per affrontare un tema di cui si sente spesso parlare, ma che si approfondisce sempre poco: la mobilità sostenibile.
Una giornata mondiale che ricorda che ci possiamo spostare anche senza auto, in un paese come l’Italia, in cui rispetto ad altri Paesi, c’è una quantità assai elevata di automobili. A che punto siamo nell’utilizzo di nuove forme di mobilità per creare una migliore sostenibilità ambientale e sociale?
Ne abbiamo parlato con Francesco Alberti, professore associato di Pianificazione e Progettazione Urbanistica presso il Dipartimento di Architettura dell’Università degli studi di Firenze.
Il professor Alberti ha, fra i suoi interessi scientifici, l’interpretazione dei sistemi di mobilità come spazi pubblici, determinanti nella configurazione morfologica della città e del territorio.
Dott. Alberti, la mobilità sostenibile è una formula che spesso sentiamo o leggiamo. Qual è a suo avviso la definizione? E quali sono i mezzi sostenibili più utilizzati oggi?
Definirei la mobilità sostenibile come un obiettivo, da perseguire a vari livelli, non solo nella pianificazione e gestione dei trasporti, ma più in generale nel governo del territorio e nell’organizzazione del lavoro e di tutte le attività che comportano lo spostamento di persone - cioè quasi tutte le attività - affinché l’impatto sull’ambiente e sulla salute umana di tali spostamenti sia ridotto al minimo, in termini di inquinamento atmosferico, emissioni climalteranti, rumore, occupazione di spazio, impatto visivo…
i modi i più sostenibili sono quindi quelli che in partenza hanno un impatto zero o vicino allo zero (piedi, bicicletta, micromobilità elettrica), seguiti da quelli - come i mezzi pubblici - con impatti più limitati rispetto all’automobile privata a motore termico usata individualmente, che è ancora il mezzo più diffuso e meno sostenibile.
Il miglioramento delle metodologie di mobilità sostenibile è molto legato alle azioni delle amministrazioni pubbliche. A che punto siamo nel nostro Paese?
Storicamente i comuni italiani, sia pure in modo non omogeneo nelle varie regioni, sono stati piuttosto attivi, anche rispetto ad altri Paesi europei, nella introduzione di ZTL e aree pedonali per proteggere dal traffico i centri storici, mentre sono mediamente ancora indietro nel perseguire in modo sistematico politiche di “riequilibrio modale”, ovvero di superamento della “car dependency” (dipendenza dall’auto) attraverso l’offerta di alternative soddisfacenti all’automobile per muoversi nelle città.
Dal 2017 sono stati introdotti anche in Italia i “Piani Urbani della Mobilità Sostenibile” (PUMS), obbligatori dal 2023 per i Comuni con più di 100.000 abitanti. Molti comuni e alcune province e città metropolitane si sono dotate di tali strumenti, utilizzando appositi finanziamenti, con risultati discontinui e in alcuni casi non ancora apprezzabili.
La classifica delle città più sostenibili al mondo vede nelle prime 10 molte città europee, ma nessuna italiana: quali sono i motivi per cui siamo ancora un passo indietro?
Scontiamo il fatto di essere il Paese europeo (ed uno dei paesi del mondo) con il più alto numero di automobili rispetto alla popolazione (68 ogni 100 abitanti, il 21% in più della media UE). Invece di considerare questo dato l’indicatore di una patologia, la politica nazionale lo ha spesso confuso con un indicatore di benessere e ha fatto ben poco per sostenere le altre forme di mobilità. Con l’attuale governo assistiamo addirittura a un’offensiva di retroguardia contro i tentativi di comuni virtuosi di ridurre il predominio delle automobili in città utilizzando, ad esempio, lo strumento delle “Zone 30”, diffusissimo nei Paesi avanzati.
Il concetto di mobilità sostenibile è molto legato anche alla smart city. Come si trasforma una città nel raggiungere la sostenibilità?
Le diverse applicazioni delle ICT (Information and Communication Technologies) hanno consentito lo sviluppo di attività a distanza che riducono la necessità di spostarsi (l’esempio massimo lo abbiamo avuto durante il COVID); inoltre hanno radicalmente modificato i trasporti urbani, rendendo possibile lo sharing, migliorando (almeno potenzialmente) l’efficienza dei sistemi di TPL, il monitoraggio del traffico, l’informazione agli utenti, ecc. Oggi sono in corso sperimentazioni di un nuovo paradigma - “Mobility as a service” (Maas) – che attraverso l’uso di app consentirà di pianificare i propri spostamenti utilizzando più mezzi (l’auto fino al parcheggio scambiatore, il TPL, la bici o il monopattino in sharing per l’”ultimo miglio”) secondo le combinazioni più convenienti e con un’unica transazione. Tutto ciò può contribuire a rafforzare il ruolo della mobilità come leva della transizione ecologica delle città. Ma occorrono politiche integrate su più fronti: stop al consumo di suolo, rigenerazione urbana, aumento e riconnessione delle aree verdi, riduzione dei consumi e differenziazione delle fonti energetiche, riciclo dei rifiuti, ecc.
Qual’è il progetto o l'esperienza italiana più sostenibile che può essere presa a esempio?
In tema di mobilità ci sono buoni esempi diffusi su temi specifici, come le zone 30 a Bologna, il trasporto pubblico integrato in Alto Adige, la tramvia fiorentina, la Bicipolitana di Pesaro, l’estensione delle reti pedonali a Cosenza, ecc. Un’esperienza interessante è il programma “Piazze Aperte” di Milano, che attraverso la partecipazione dei cittadini ha trasformato in spazi pubblici ampie superfici impropriamente occupate dalla circolazione e sosta veicolare, secondo il principio della “Città a 15 minuti”.
Ma quanto è difficile cambiare le nostre abitudini e la nostra quotidianità in chiave sostenibile?
Moltissimo. Per questo occorrerebbero indirizzi nazionali chiari e che le sperimentazioni locali, su base partecipativa, fossero sostenute e fatte crescere. Diversamente, il gap con i Paesi europei più avanzati sarà destinato ad allargarsi.